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WP-LPF 2/17
L’idea che si possa ritenere lecita l’uccisione indolore di un neonato su esplicita richiesta dei suoi genitori anche in casi in cui ciò non è necessario per porre fine a una condizione di sofferenza intollerabile né alleviabile né transitoria incontra pochi consensi e sembra anzi urtare contro alcune delle intuizioni morali più solide di molte persone. In un saggio pubblicato nel 2013 sul Journal of Medical Ethics, Alberto Giubilini e Francesca Minerva hanno sfidato quelle intuizioni, sostenendo che chiunque sostenga la liceità dell’aborto medico, anche in casi in cui non vi sia in gioco la vita o la salute della madre, ritenendo che l’embrione e il feto non siano titolari di quello status morale che conferisce al soggetto che ne è titolare il diritto alla vita, non abbia buoni argomenti da opporre alla liceità di quello che chiamano “aborto post-nascita”. Nel loro contributo a questo fascicolo i due bioeticisti riprendono e sviluppano la loro posizione, rispondendo al alcune possibili obiezioni. Nel suo commento al saggio di Giubilini e Minerva, Nicola Riva, pur condividendo l’idea che non abbia senso attribuire al neonato il tipo di status morale che conferisce al soggetto che ne è titolare una pretesa moralmente fondata al diritto alla vita, cerca di difendere le intuizioni morali di chi afferma la liceità dell’aborto medico, ma si oppone all’“aborto post-nascita”, sostenendo che, adottando una prospettiva alternativa a quella presupposta dall’argomento dei due bioeticisti, si possa rendere conto, coerentemente, di quelle intuizioni.