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Pianificare è una pratica comune a ogni essere umano. Di fatto, tale atto influenza fortemente la vita degli individui per la centralità di beni e valori su cui incide, per il ruolo e lo spazio che detiene e per il basso grado di reversibilità delle conseguenze delle scelte. Questo avviene in tutti i campi del contesto economico-sociale, ma è soprattutto la città ad avere da sempre un’esigenza intrinseca di essere pianificata, dalla semplice razionalizzazione degli spazi fino alla gestione, a partire dal XIX secolo, dei più complessi problemi urbani. La pianificazione urbanistica è un procedimento complesso, che si configura in primis come un percorso tecnico che regolamenta gli usi del suolo e secondariamente come un processo politico che coinvolge diversi attori e portatori di interessi. Proprio questa doppia natura ne ha messo in luce le principali criticità: competenze tecniche e scelte politiche sono in costante contrasto tra loro ed è continua la ridefinizione di confini e specificità. In particolare, questo ha portato, negli ultimi decenni, al ridisegno dei ruoli di Stato e mercato. Da un lato, i difensori dell’intervento pubblico sostengono la tesi del «fallimento del mercato», per cui il settore privato è tacciato di incapacità di azione coordinata e di perseguire interessi esclusivi e personali. Dall’altro, i sostenitori del mercato pongono l’accento su come il tradizionale dominio della competenza istituzionale all’interno delle città non necessariamente garantisca buoni risultati per la collettività, ma anzi sia causa di politiche coercitive, inique e poco efficaci. In questa prospettiva, l’articolo vuole ricostruire uno dei dibattiti tradizionalmente presenti nella storia della disciplina urbanistica: la pianificazione è necessaria o no? Lo Stato è l’unico che deve e può pianificare? Un assunto etico-normativo può essere la soluzione alla crisi dell’urbanistica contemporanea?